lunedì 22 settembre 2014

Aotearoa, New Zealand

Kia ora, Friends,

sono ad Auckland, in Nuova Zelanda!






Da quando sono qui, il mio italiano scricchiola un po'. Sembra impossibile, ma quando sono in NZ, parlo, penso e sogno in inglese. A casa parlo solo inglese con mio padre+famiglia, fuori sono circondata da cartelli stradali in maōri, e non chiamo nemmeno a casa in Italia (scusa, Nuna). La cosa positiva e' che ho perso quasi completamente quell'orrido accento americano e sto prendendo quello più dolce neozelandese. 


Tornare in Nuova Zelanda e' un po' come tornare alle origini. Alle origini della mia vita, alle origini della terra. La natura qui e' talmente selvaggia che spesso ho la sensazione che nulla sia realmente cambiato da quando questa terra e' stata abitata dall'uomo.



Di mattina vado a camminare lungo la costa e mi chiedo se sia solo una mia impressione che l'oceano cambi sfumature ogni volta che lo guardo. In certe giornate si vedono le balene e i delfini all'orizzonte. In estate trovo le stelle marine sul lungomare e cerco sempre di riportarle in acqua. Amo l'Oceano Pacifico, sebbene sia lo stesso oceano che ha portato via mio nonno, tanti anni fa.



E' una realta' lontana da quella a cui sono abituata (se si può parlare di "abitudine" nella mia vita). Qui la gente non ha quella vena preoccupata sulla fronte, quell'espressione cupa che spesso si incontra nello sguardo degli europei. Sara' che qui la vita e' diversa sin dall'inizio, dalle scuole elementari. Qui non esistono i segni rossi sul foglio, ma annotazioni del tipo "Sono sicura che andrai meglio la prossima volta" o "Potresti migliorare scrivendo x invece di y". Quindi quando qualcosa va male, non e' nella mentalità della mia gente neozelandese pensare "aaaahhh sono fallito per la vita!", bensì "Ok, una cosa e' andata male. Non importa, mi impegno di più per la prossima."

Ieri volevo andare a correre, ma non sono riuscita: appena ho messo piede fuori casa, ho subito fatto amicizia con ogni persona che incontravo. Qui la gente saluta per la strada. Ti guarda negli occhi e si ferma a parlare. Molti, come me, camminano scalzi. Le strade sono pulite e c'e' il mare dappertutto, essendo la NZ un'isola. Ieri mattina sono tornata a casa con parecchi nuovi numeri nella rubrica. La gente qui e' genuina e amichevole. Ho trascorso quella che avrebbe dovuto essere la mia corsa mattutina a chiacchierare con un anziano signore e con una giovane mamma di origini tedesche. Non avrò smaltito tutto il burro neozelandese che mangio, ma ne e' valsa la pena.


La cosa che mi rimane sempre impressa ogni volta che vengo qui e' il risveglio, di mattina. Se per ipotesi mi dovessi svegliare in questo posto, senza sapere di essere qui, lo capirei ugualmente. Da cosa? Da tante cose. Il mio cuore batte forte, come non mi capita in nessun posto. L'aria ha quel profumo che sí, potrei confondere con quello dell'Australia, ma e' in parte diverso. E vorrei potervelo descrivere, ma ha un qualcosa di inspiegabile. Io e la NZ abbiamo un legame molto intenso e particolare. Un po' come quando ami qualcuno e non sai (ancora) il perché. E' un legame indefinito, allegramente burrascoso, più forte di tutti i continenti e dei mari che quasi sempre ci separano. Ieri notte mi sono svegliata verso le 3 e ho guardato fuori dalla finestra. Ho preso paura da quanto luminose erano le stelle.





Comunque, quando mi sveglio e apro gli occhi, in NZ, sento subito che la mia solita inquietudine se n'e' andata. Mia nonna, in Italia, una volta mi ha detto che mi manca qualcosa come persona, ma non sa spiegarmi cosa. Allora, prontamente le rispondo: "ma a chi e' che non manca qualcosa, dentro?" e lei replica: "a me". Lei e' una persona interiormente molto completa. Io non penso di esserlo, ma ho imparato a coglierne il lato positivo. Se fossi già pienamente soddisfatta della mia vita, non sarei spinta a cercare nuovi posti e nuove persone. Non avrei fatto domanda per andare a studiare in Israele, se amassi follemente la mia università in Italia. Non sarei partita per New York, quattro anni fa, se fossi stata davvero soddisfatta della mia vita in Italia.  Una pronta obiezione potrebbe essere: "sí, ma ti ritroverai a cercare sempre qualcosa che non trovi, qualcosa che esiste solo nella tua mente. Ti potrebbero sfuggire tante cose nel frattempo." Puo' darsi. Ma ho solo 21 anni. Di tempo per stabilizzarmi ne ho, spero. Intanto continuo ad aggiungere nuovi tasselli alla persona che sto diventando. A questa eta' siamo un po' come delle spugne: possiamo assorbire molto di ciò che impariamo strada facendo. E tutto torna utile, quando meno ce lo si aspetta. Proprio stamattina parlavo con mia nonna Ann di quelli che lei chiama threads of life, i fili che tessono la vita.

Vi racconto un paio di piccole coincidenze.

A 5 anni vivevo ad Adelaide, South Australia e frequentavo la Magill School. A 17 anni mi sono ritrovata a fare un colloquio per entrare alla scuola dell'ONU, Manhattan. Purtroppo sono arrivata a NY a settembre e tutte le altre scuole pubbliche erano già piene e non c'era più posto per me. Le liste d'attesa erano infinite. Ero disperata, pensavo che sarei dovuta ritornare in Italia. L'UNIS (United Nations International School, Manhattan Campus) era una scuola principalmente per i figli dei dipendenti dell'ONU e entrarci era molto tosto. Non avevo molte speranze, non avendo io genitori collegati all'ONU. Inoltre, provenivo da un semplice liceo, e non da una scuola che seguiva il programma del Baccellierato Internazionale. Dovevo superare un colloquio, in cui gli esaminatori avrebbero valutato le pagelle precedenti, il volontariato fatto fino a quel momento e il candidato come persona. Era un po' un'eccezione, dato che l'anno scolastico era già iniziato e in più era il "senior year", cioè l'ultimo anno delle superiori. To cut the long story short, hanno valutato tutti i dati "oggettivi", ma il preside mi ha ammessa sul momento: anche lui, da piccolo, aveva frequentato la Magill School di Adelaide. 

A 8 anni vivevo a Hampstead Garden Suburb, Londra, nel quartiere ebraico della città. Tutti i miei amici e i miei insegnanti erano ebrei. 12 anni dopo ho fatto domanda per partecipare ad un accordo bilaterale con l'Università Ebraica di Gerusalemme e nella lettera di motivazione ho parlato dei miei due anni londinesi, tra Shabbat e Yom Kippur. 

 

A 15 anni studiavo latino al liceo a Padova. A 16 anni questo ha fatto sí che, tra tutte le difficoltà  psicologiche che ho avuto quella volta, le rigide lezioni di latino al Loreto Grammar School di  Manchester fossero la parte più leggera delle mie giornate. 

Stemma del Loreto College

Al primo anno di università, nel manuale di diritto costituzionale comparato, c'era un paragrafo che parlava del Trattato di Waitangi. L'avrei tranquillamente saltato (sapevo che non sarebbe mai stato oggetto di una domanda d'esame) se parte della mia famiglia non fosse maōri! Al terzo anno di universita', facendo il colloquio per Gerusalemme e vedendo dal curriculum che sono meta' neozelandese, l'esaminatore mi ha chiesto se sapessi qualcosa del diritto maōri. E onestamente, di diritto maōri non sapevo un bel niente. E bam! Ho tirato fuori il Trattato di Waitangi (e il punto e' che non lo conoscevo tramite mio padre…ma tramite un manuale italiano!).



Vivere nel quartiere ebraico di Londra mi ha insegnato molto sulla cultura ebraica. A 17 anni a New York ho fatto amicizia con un ragazzo israeliano proprio parlando della religione ebraica. Ora che mi trasferisco a Gerusalemme, ho un punto di riferimento.




Questi sono solo esempi, ma se ci penso me ne vengono in mente tanti altri. E' proprio questo che mi spinge a fare quella domanda per un erasmus/per uno stage/per un lavoro/per un'altra avventura. Personalmente, trovo affascinante pensare a cosa porterà un domani la domanda per l'erasmus che compilo oggi. Magari a nulla quest'anno, e nemmeno l'anno prossimo. Anzi, potrebbe rallentare l'università per il momento. Ma tra 10 anni, chissà, potrei ritrovarmi a lavorare a fianco ad un collega francese conosciuto a 21 anni in erasmus!




Chiaro, se uno non ha la possibilità di viaggiare, e' un'altra storia. Spesso, pero', ho avuto a che fare con persone che non volevano, per semplice paura di buttarsi in una esperienza del tutto sconosciuta.

Non e' facile, lo so bene. Non e' facile economicamente, psicologicamente e sentimentalmente. Credo, pero', che l'importante non sia tanto avere le opportunità (spesso chi le ha non le sfrutta, dandole per scontate), bensì non precludersi a priori nuove occasioni e cogliere al volo quelle che vengono, anche a costo di ritrovarsi qualche volta a piangere in una metropolitana che porta alla 61esima strada di Manhattan, o di trascorrere qualche intervallo da soli perché non si e' ancora fatta amicizia con la nuova classe. E queste non sono che le difficoltà più leggere! Ma di questo magari vi racconterò più avanti...




Se oggi dovessi dare un consiglio alla me stessa di qualche anno fa, mi direi:
1. Cogli ogni occasione, quando puoi: tutto si intreccia, a distanza di tempo.
2. Armati della immigrant mentality, quell'acutezza di pensiero e riflessione che emerge quando si è continuamente sottoposti a nuove sfide all'estero. E' quello sforzo in più che l'immigrato fa per dimostrare che e' in grado di adattarsi alle nuove situazioni. 
(In realta', credo che esistano delle teorie diverse su cosa significhi "immigrant mentality", ma io vi ho dato la mia interpretazione).



Quindi, eccomi nella verde terra dei maōri, a chiudere gli occhi mentre tocco una conchiglia azzurra. Sono circondata da felci verdi, come il mio koru di Pounamu. Vicino al mare stanno fiorendo i primi fiori di Pohutukawa. Sara' una bella estate, a febbraio.

Ka kite anō,
Saraita


Koru di pounamu



















giovedì 14 agosto 2014

Lezioni newyorkesi

Ho provato a scrivere un post sulla mia scuola, ma dopo un po' mi sembrava "forzato" e allora l'ho lasciato in sospeso. Ne approfitto stamattina per raccontarvi qualcosina su New York, dato che stamattina c'e' la nebbia e la nebbia mi ispira.

...I'll go back to Manhattan
As if nothing ever happened
When I cross that bridge
It'll be as if this don't exist...



New York mi ha insegnato ben altro, oltre alle lezioni scolastiche.

Ecco tre cose che ho imparato, grazie alla Big City. 

 1. La pigrizia fa male
Capitava spesso che a New York non avessi voglia di far nulla, perché le opportunità erano talmente tante, che dopo un po' uno si abituava e le dava per scontate.
"Non vado a vedere quel musical di Broadway, perché ce ne sono talmente tanti e posso andarci quando voglio!".
Peccato che pensandola così, uno non avrà mai abbastanza voglia di uscire dalla routine e fare qualcosa di diverso.
Anzi, sapete cosa? Il male di New York - per me - e' stato che la routine consistesse in una serie di eventi e occasioni sempre nuove, ogni giorno. Aretha Franklin cantava a Coney Island? Vabbe', il giorno dopo ci sarebbe stato qualcun altro. Forse sarei andata il giorno dopo. 




Quando questa diviene la routine, non c'e' più nulla di emozionante. Ci si culla nell'idea di "poter scegliere, se si vuole". Paradossalmente, uno inizia a cercare la routine noiosa vera e propria, quella che altrove si fa di tutto per evitare.



In Italia non succede niente, a confronto. Non posso più scegliere di vedere un musical o Aretha Franklin, nemmeno se volessi. E ora mi basta una sagra di paese per farmi venire la voglia di vestirmi e farci un salto.

Non fraintendetemi: all'inizio queste occasioni le coglievo tutte. Non c'era invito che non accettassi, galleria d'arte che non conoscessi. Non c'era party nella Upper East Side a cui mancassi, non c'era concerto a cui non andassi. Ma poi il tempo passa, e inevitabilmente la percezione di ciò che ci circonda cambia.







Una volta tornata, ho imparato che sta a noi scegliere di non lasciarci trascinare dalla pigrizia mentale. Non e' colpa della vita noiosa attorno a noi (come la si voglia concepire: routine vera e propria, o routine troppo emozionante a cui ci si abitua), ma e' tutta una questione di percezione. Se a priori non siamo disposti a cogliere le occasioni, dopo un po' non le vedremo più. Non avremo quell'elasticità mentale che ci sprona a dire: "sai cosa? vado a vedere quello scrittore che viene a parlare a Barnes & Noble, perché magari potrei imparare qualcosa da quello che dice. E chissà, può anche darsi che strada facendo io veda qualcosa di interessante, o incontri qualcuno che mi darà uno spunto per pensare."


Come lui/lei ad esempio!


2. Don't be too hard on yourself.
Ecco, non voglio che questo sia un cliché. Spesso ci imponiamo di essere migliori di come siamo - e questo non e' un male: aiuta a migliorarsi - ma bisogna farlo con equilibrio. Vale a dire, e' bene prefissarsi degli obiettivi e mirare in alto, ma non serve essere troppo duri con se stessi, quando le cose vanno diversamente da come avremmo voluto.

Non parlo di quando il diverso corso degli eventi non e' dipeso da noi. In tal caso il problema neanche si pone.
Io parlo di non essere troppo duri con se stessi proprio quando si sbaglia e lo sbaglio e' dipeso da noi. E va bene, può capitare di sbagliare. Anche di agire coscientemente, sapendo di non fare la cosa migliore. L'importante e' non pensare che tutto sia perso, della serie: ho sbagliato una volta, adesso e' tutto perso.

Stando a New York ho imparato ad accettare che siamo umani. Siamo vulnerabili, per quanto cerchiamo di dare un'idea diversa. E non possiamo controllare tutto.


L'ho capito gradualmente, vedendo che ero nella città che i miei amici in Italia sognavano e che pero' ai miei occhi non coincideva con quello che avrei voluto in quel momento. Non era facile ammetterlo. Sentivo come se avessi un'aspettativa gravante su di me, un'aspettativa di sfruttare al massimo ogni istante e dimostrare qualcosa…forse che ero felice? Non lo so. So solo che non e' facile vivere in un continente diverso, cambiare vita dal 4 al 5 settembre, così, di punto in bianco. O almeno, non lo e' stato per me.

Non e' così semplice, anzi, e' frustrante. Allo stesso tempo c'erano talmente tanti aspetti della mia vita che mi sfuggivano dalle mani. C'e' una grossa differenza tra la vita che si mostra agli altri (anche forse per auto-convincersi) e la vita che si vive interiormente. Non e' detto che solo perché una persona viva a New York, allora la vita sia tutto divertimento e American Dream. E forse, partendo da questa aspettativa ideale e illusoria, l'impatto con la realta' e' stato molto forte.
Bisogna accettare gli alti e bassi, cercando un equilibrio. E gli alti e bassi ce li hanno tutti, per quanto non sembri. Lo fanno gli aerei, con le turbolenze. Ce la possiamo fare anche noi :)





3. Work hard to be happy


“Happiness is the consequence of personal effort. You fight for it, strive for it, insist upon it, and sometimes even travel around the world looking for it. You have to participate relentlessly in the manifestations of your own blessings. And once you have achieved a state of happiness, you must never become lax about maintaining it. You must make a mighty effort to keep swimming upward into that happiness forever, to stay afloat on top of it.”

― Elizabeth GilbertEat, Pray, Love


Please, please, please, stick this quotation onto your mind.

Ho letto questo libro a New York e questa e' una delle frasi che sono diventate il mio mantra. Non credo nella felicita' casuale, o meglio, non del tutto. La felicita' richiede duro lavoro e tanto, tanto impegno.

In positivo: FAI qualcosa. Esci, cerca quello che ti piace, coltiva i rapporti, ama gli animali, parla con gli anziani, fai la carità ad un mendicante. Sono solo esempi, ma il concetto e': DATTI DA FARE.
In negativo: SMETTILA di auto-sabotarti. E qui non aggiungo altro, perché penso che ognuno conosca i propri modi di auto-sabotarsi.

Non dico che io ci sia riuscita ad essere proprio felice. Ci sono momenti e momenti. Ma l'impegno verso la propria felicita' fa la differenza, ve lo prometto.

A New York - in tutta onesta'- ho fatto ben poco. Spesso mi sono "appoggiata" a tutto ciò che mi circondava: la città, le persone, le occasioni…aspettando che mi venissero a bussare alla porta, principalmente. E capitava, anche, ma non poteva certo durare per sempre.

Le cose che ci circondano sono troppo fragili e mutevoli per costituire una solida base per la nostra felicita'. Occorre quel quid pluris  (HAAAAAAA!!!) che solo noi possiamo scegliere di apportare.





Alla prossima,
Saraita


Ah, per chi fosse curioso di vedere cosa mi sono persa quella volta a Coney Island, ecco qui la strepitosa Aretha Franklin, 2011.





lunedì 11 agosto 2014

New York

Sono partita per New York il 5 settembre del 2010. Dovevo ancora compiere 17 anni.



Questa è la prima foto che mi è stata scattata a casa, a Manhattan. Era il giorno stesso in cui sono arrivata. Dovevo ancora uscire a comprarmi i vestiti e quindi mi sono messa il primo "straccetto" che ho trovato. Ce l'ho ancora e mi fa sempre molta tenerezza.













New York e io abbiamo un rapporto travagliato.



Abbiamo un rapporto travagliato perché per me New York e' stata un'esperienza che mi ha plasmata come pochi posti hanno saputo fare. Ma come sempre accade quando si prova a modellare della creta dura, occorre molta costanza e consapevolezza del fatto che si sta lavorando in vista di un risultato, cosa che può facilmente sfuggire, quando si e' troppo concentrati sulla fatica in se'.

Allora, Friends, facciamo una cosa: vi racconterò New York, la mia New York, nel senso di per com'e' stata per me, con tutta la sincerità e l'umiltà di cui sono capace. Il che vuol dire che non dirò che e' stata un'esperienza meravigliosa in cui tutto e' andato bene, ma vi dirò chiaramente quali sono stati i miei sbagli e ammetterò che, onestamente, qualche rimpianto ce l'ho.

Tu sais que j'ai du mal
Encore a parler de toi
Il parait que c'est normal 
Y'a pas de règles dans ces jeux là.

Di New York mi piacevano poche cose. Ma di quelle cose amavo tutto, senza eccezioni. 
Mi piaceva New York sotto la pioggia, perché la città diventava più romantica. Una volta ho conosciuto un ragazzo che abitava lí. In realta' le circostanze che ci hanno portato a frequentarci sono state alquanto bizzarre, ma questa e' un'altra storia. Tutt'oggi ci scappa un sorriso, se ne riparliamo. 
Passeggiavamo spesso, assieme, lungo l'Hudson River e una volta siamo stati sorpresi da un'acquazzone estivo. Ci siamo messi a correre mano nella mano sotto la pioggia: lui in camicia, io con un vestitino leggero. Eravamo abbastanza irriconoscibili: capelli spettinati, vestiti bagnati, ma felici. Poi abbiamo trovato riparo nei pressi di un café, vicino a TriBeCa, che da lí è diventato il nostro posticino per il caffè mattutino. Caffè americano, ma a me piaceva lo stesso. Conservo ancora il biglietto da visita di quel caf é: dietro c'e' una piccola mappa per arrivarci, da qualsiasi punto della città. 



Daily life
Mi piaceva molto la mia quotidianità. Ero costantemente impegnata: scuola, sport, lavoro. Talvolta lavoravo anche di notte. Facevo la babysitter e la dogsitter e capitava spesso che i genitori dei bambini dovessero partire per viaggi d'affari. In quel caso, mi preparavo una borsa e arrivavo a casa loro molto presto di mattina o molto tardi la sera, in modo da permettere ai genitori di preparare i loro bagagli e partire tranquillamente. 
I "miei" bambini si chiamavano Azalea, Paige, Maddie, Griffin e Alex, mentre il cagnolino, Oscar, era il carlino più divertente della terra. Ho voluto un gran bene a questi bambini e alle loro famiglie. Avevano tutti da un anno a quattro anni. 

All'inizio e' stata dura, perché una di loro aveva nostalgia dei genitori e piangeva per ore e per ore. A volte uscivo con un gran mal di testa. Poi ho iniziato a scendere a compromessi: "se mangi tutta la pappa, dopo guardiamo Shirley Temple!". Ed era fatta. Shirley Temple funzionava alla grande con i bambini. Azalea era meta' americana e meta' colombiana. Con lei ho dovuto imparare a parlare in spagnolo. 


Ho iniziato questi lavoretti facendo le lavatrici. A Manhattan (non so negli altri quartieri, ma un newyorkese ben presto impara che gli altri quartieri non esistono. No, davvero, uno non va nel Bronx.) non si usa avere la lavatrice dentro casa, perché gli appartamenti sono troppo piccoli. C'e' un'apposita lavanderia self service, generalmente nei sotterranei del grattacielo. In questo modo, si creano molte occasioni per conoscere le persone che vivono nel tuo stesso building. Occasioni che gli asociali newyorkesi tendono a non sfruttare. Ma io non sono un'asociale, né sono del tutto newyorkese. E amo parlare con la gente.

Lettere
A New York, inoltre, scrivevo molte lettere. Principalmente scrivevo alle mie amiche in Italia, che mi hanno tenuto compagnia a distanza, quando mi sentivo sola. E capitava spesso, essendo lontana da tutti i miei affetti. Scrivevo inoltre ad un detenuto: era stato condannato all'ergastolo ed era rinchiuso in un carcere del sud Italia. Non avendo mai tempo durante il giorno, mi ritrovavo a scrivergli in pausa pranzo, a scuola. Era una corrispondenza continua: una lettera io e una lettera lui. Non c'era giorno in cui non controllassi la mia casella postale. 
Ci tenevamo compagnia, anche se vivevamo in due realta' completamente diverse: io nella città della Statua della Liberta' e lui nel posto dove la libertà e' negata nella maniera più assoluta. Dopo la sua prima lettera, percependo che a scrivere quelle parole non era un reato, ma una persona, con dei sentimenti, delle speranze e dei dispiaceri, ho deciso di iscrivermi a giurisprudenza. (Qualcuno avrebbe dovuto fermarmi in tempo, ma ahimè…).


Il Consolato d'Italia
Ah, io amavo quel posto. Non tanto per il posto in se' - era a Park Avenue, una strada che adoravo percorrere a piedi - ma per le persone che nel giro di poco tempo sono diventate mie amiche. Erano tutti i colleghi di mia mamma, anche se di vari reparti (passaporti, istruzione, visti, etc..). Il bello del Consolato, in generale, e' che le persone che ci lavorano (e i loro figli) sono tutti accomunati da storie simili e quindi ci si capisce senza bisogno di troppe spiegazioni.
Là dentro era come un film. Tante storie, tante vite. 


Marcellina, una persona meravigliosa, lavorava nell'ufficio accanto a quello di mia mamma. E' stata come una seconda mamma per me a New York. Anche se magari non ci vedevamo tutti i giorni, sapevo che potevo contare su di lei in ogni momento… Lei mi capisce molto, anche adesso.

Poi c'e' Giovanna, il tipo di persona che fa emergere il lato migliore delle persone. Con lei uno e' il meglio di se'. Mi ha fatto conoscere la comunita' buddista di New York. E' stata un'esperienza singolare, che mi e' rimasta nel cuore. A volte ci ritrovavamo a casa di qualcuno a cantare Nam Myoho Renge Kyo.
The team!
Velia, poi, aveva una classe innata, quel tipo di eleganza che rimane. Mi ha accolta con tanto affetto e ho passato il capodanno 2009 con lei e una sua amica di Roma.

Avevo anche fatto amicizia con le guardie di sicurezza all'entrata del Consolato. Erano persone affidabili, con un gran senso dell'humour.

Infine, gli stagisti. Spesso venivano a casa mia e una volta siamo siamo andati a vedere la prima di un film (dove c'era Fabio Volo, haha!). Più di tutti, mi sono affezionata a Fosca, una ragazza indescrivibile. Ha la luce negli occhi. Mi manca molto, ma la penso spesso. Mi ha conosciuta in un periodo in cui non ero molto felice, ma nonostante ciò mi ha accettata nella mia fragilità del momento, and from then on she made her way through my heart. 

New York, 4 luglio 2011. Io e Fosca
Io e Fabio Volo, West Village
Io e Fosca, Rooftop 
Poi ho avuto l'onore di conoscere i due Consoli: quello uscente dalla carica e quello entrante. Ogni volta che li salutavo, mi sentivo sempre molto onorata. Erano persone educate e distinte. Ora, il Console che quando sono arrivata io stava uscendo dalla carica, e' diventato l'Ambasciatore d'Italia a Tel Aviv (Israele). Coincidenze un po' pazzesche, o no?!

Festa della Repubblica
Ora devo andare: ho molto da fare oggi. Dicono che agosto passi in fretta, ed e' proprio così.
Nei prossimi post vi parlerò della mia scuola e dei miei pensieri su New York. Spero che vi piaceranno. 

Until next time,
Saraita



La vista dalla mia terrazza: ogni volta mi venivano i brividi.

La mia prima foto fuori casa

sabato 9 agosto 2014

Australia

La mia Australia. My wild, beautiful, free land.

Quando avevo 5 anni, ho vissuto ad Adelaide, South Australia. 
Non ho ricordi "lineari" della mia vita lí, ma solo tanti brevi flash che si susseguono nella mia mente quando il caldo diventa soffocante o l'erba secca scricchiola sotto i miei piedi. 

Allora, Friends, direi di iniziare dalla cosa più umana che ci sia: i sensi. 

L'olfatto.
E' grazie a questo senso che fisso i ricordi più significativi. Non solo verso l'Australia, ma verso qualsiasi esperienza. Ricordo il profumo di ogni persona, di ogni casa. Darei qualsiasi cosa per risentire il profumo di mia zia Bruna, per esempio…anche se non succederà.   

In Australia l'aria profumava di fiori e di Eucalyptus. Ricordo che mi svegliavo sentendo il profumo di Jacaranda, un albero viola che esiste in quei posti, e mi batteva forte il cuore. Ma ricordo anche il profumo dei toast col burro salato, ricordo l'odore del disinfettante Dettol che mia mamma usava per pulire la casa. Era fortissimo, perché credo fosse a base di Eucalyptus. Una persona normale non lo reggerebbe, ma essendoci cresciuta assieme, io lo ritengo tuttora l'unico disinfettante che userei nella mia casa. 

Disinfettanti a parte, ricordo il profumo dello shampoo di Herbal Essences e il fatto che una volta una mia amica (Asta, si chiamava) era venuta a stare da me per un po' e ci lavavamo i capelli con quello. Adesso e' cambiata la confezione, ma il profumo e' sempre quello. Quello delle mie giornate con Asta.



E l'odore della mia scuola, la Magill School (aneddoto pazzesco: 12 anni dopo mi sarei ritrovata a New York a fare un colloquio per entrare in una scuola, di fronte ad un preside che quand'era piccolo aveva frequentato nientepopodimeno che quella scuola elementare!). Era una cosa come il pan carré appena aperto o gli gnocchi freddi. Lo so, sono parametri insoliti, ma non ci posso far niente se e' questo che mi ricordo. Ma in compenso i giardini profumavano di rose. C'erano rose ovunque. Una volta Ian, un bambino dai capelli rossici me ne regalo' una, ma non sapevo una parola di inglese e avrei voluto ringraziarlo. Allora gli ho sussurrato un "grazie" in italiano. Non so se mi abbia capito, ma dal suo sorriso penso proprio di si.


Quelle che vedete erano le nostre uniformi, coi colori australiani. Il cappello era obbligatorio, per i raggi UV, molto forti in Australia-NZ.

Il tatto
Ricordo la corteccia liscia degli Eucalyptus. Nei lunghi e cocenti pomeriggi estivi, mia nonna mi portava fuori e io disegnavo casette sulle cortecce degli alberi della strada. Le strade erano deserte e il sole picchiava forte. Quando sono partita per sempre (mentre mia mamma invece sarebbe rimasta li per lavoro per molti anni ancora), i miei disegni sono rimasti sulle cortecce di tutte le vie. Ho saputo che mia madre piangeva vedendoli ogni giorno, mentre faceva quella strada per andare a lavoro. Mi si spezza il cuore solo a pensarci. 


Ricordo anche la consistenza medio-soffice del legno con cui era costruita la casetta che avevo su un albero. Era stupenda: sembrava il regno delle fate, ma non ci andavo mai perché, non parlando inglese, non avevo nessuno con cui giocare. Col tempo pero' mi sono fatta delle amiche: erano le mie vicine di casa, Kate e un'altra, ma a quel punto la casetta era infestata di ragni pericolosissimi.

La vista
Tramonti impressionanti, terra rossa, di fuoco. 
Nel mio giardino c'erano due iguane, di specie "blue tongue". Mangiavano tutte le lumache, con la loro lingua blu!
A proposito di iguane, una volta ero nel deserto australiano e c'erano circa 60 gradi. Stavo morendo e i rangers erano lontani. Ero disperata. Mia madre mi racconta che ero rossa come un peperone. Avevo solo della mortadella con me (HAHAH) e un'iguana enorme me l'ha mangiata tutta. Da quel giorno non mi e' mai più piaciuta la mortadella. 

L'Australia era piena di ragni e serpenti. I peggiori ragni pero' erano quelli piccoli, i redbacks: neri come il carbone, con una macchia rossa sulla schiena: una loro puntura ed eri morto.
Quelli grandi come una mano stavano dappertutto: in bagno, in giardino, in cucina, ma erano relativamente innocui. Ce ne sono alcuni, grandi come dei passerotti, che ti saltano letteralmente addosso. Ma davvero, sono innocui, poveretti. Lí li chiamavano Jumping men, se non erro.


Uno poi si abitua. Anzi, convivevo con un australiano, Steven, che mi ha insegnato come prenderli senza far loro del male e a posarli fuori dalla casa.

Poi ricordo i koala e i canguri. Una volta un gruppo (branco?) di canguri mi ha quasi assalita perché mi ero avvicinata ad un loro piccoletto. Ho visto anche dei dingos, ma di quelli non ho molti ricordi (solo tanta paura dei loro attacchi). Ma l'animale che ricordo più di tutti e' il Wombat. Ci avevano anche insegnato una filastrocca che si chiamava Wombat Stew (per chi morisse dalla voglia di impararsela, http://www.amazon.com/Wombat-Stew-Marcia-K-Vaughan/dp/0382092112). E i diavoli della Tasmania: brutti ma quel brutto che piace.




A scuola non si potevano usare le scarpe in classe, perché c'era la moquette. Ci davano dei cioccolatini a forma di ranocchi. La mia maestra si chiamava McClaren e me la ricordo solo perché all'epoca la associavo alla famosa macchina di formula 1 (correggetemi se sbaglio).


Ogni mattina ci facevano ballare con la musica "The lion sleeps tonight". Piangevo sempre con quella canzone, ma non ho mai saputo perché. Copiavo tutti i movimenti dalla mia amica Kate, perché non mi veniva spontaneo ballare di mattina presto.












Tornando da scuola passavo da Carmelina, una signora italiana che era immigrata in Australia molti anni prima. Di lei ricordo solo che mi preparava i gamberoni (mai piaciuti, perdonami Carmelina) e che nel suo giardino crescevano alberi di pesca che poi facevano le pesche più profumate del pianeta. Non mi e' più capitato di assaggiare delle pesche buone come le sue.






Ora, purtroppo devo tornare ai miei libri di giurisprudenza, ma ripeto: la Sara-giurista non ha niente a che vedere con la vera Sara Ginevra. E' solo che le tocca fare anche la giurista, se vuole avere in futuro tempo per nuove avventure nel mondo. Altrimenti sarebbe costretta a trascorrere le sue giornate scannandosi per trovare un lavoro decente e addio corse tra i canguri o lotte coi serpenti. Teniamo duro ora, ne varrà la pena. 
Continuero' le mie storie australiane domani, se la signora Ispirazione verra' a trovarmi per l'ora del te'.

Until next time,
Saraita





Io e Asta. L'altra bambina era Sarah. Era Natale.

About me

Sono una viaggiatrice.
Amo la natura, vorrei vivere in una foresta o vicino all'oceano. Sto cercando il mio posto nel mondo, e a volte lo trovo, o sotto una pioggia torrenziale o mentre cammino lungo le sponde di un fiume.

Mi piacciono le lingue e mi arrabbio quando mi si dice che sono meri strumenti per comunicare: sono molto di più…sono modi di pensare diversi, sono chiavi per mondi sconosciuti.

Sono italo-neozelandese. Ho vissuto in Italia, Australia, Inghilterra, Stati Uniti e adesso andrò in Israele. Penso che presto mi trasferirò in Francia, ma e' tutto da vedere. Amo le culture un po' sconosciute, come quella dei maori. Poi ho una fissa con la letteratura nordica, insomma, tutto quello che pochi conoscono e che ho imparato ad amare quand'ero piccola, trovando libri che venivano lasciati sugli scaffali.

Studio giurisprudenza, ma non ha nulla a che fare con la persona che sono. Quello s í che per me e' uno strumento…uno strumento che a volte apprezzo, a volte detesto. Ma e' molto utile nella vita di tutti i giorni. E qui si vede un po' di come sono: ho una vasta fantasia, sono creativa, cerco di non farmi intrappolare dagli schemi che la società impone, ma allo stesso tempo non nego il lato concreto delle cose, in cui, anzi, cerco di fare del mio meglio.

Ho pochi punti fermi, ma quelli che ho sono essenziali per me. Cerco la semplicità nella complessità della realta' in cui viviamo. Non e' facile, ma e' una ricerca continua…come del resto penso che sia la Vita.

In questo blog parlerò dei miei viaggi e dei miei pensieri, delle persone che ho incontrato e che gentilmente hanno scelto di fare un pezzettino di strada con me, nella loro vita e nella mia.

A presto,
Saraita